venerdì 10 maggio 2013

Preview



La luna di zolfo



Preview dello spettacolo teatrale "La Luna di zolfo" di Fabio Scibetta e Micaela Veronesi.
Riprese: Andrea Spinelli, Mauro De Fazio
Montaggio: Luciano Tancredi, Andrea Volpe
AreaLab Il margine soc. coop.

lunedì 25 febbraio 2013

domenica 3 febbraio 2013

SUGLI OROLOGI MECCANICI E LE BUSSOLE II




Istanbul, mercato di Kadikoy 22 dicembre 1901.
Un fiume di gente scorre nella trincea delle bancarelle. Un via vai apparentemente caotico, ma che se lo si vede dall’alto, apparirebbe come una pulsazione sanguigna che irriga tutto.  A differenza degli altri quartieri, a Kadikoy l’Asia è visibile, si sente ancora di più nelle pozzanghere sotto i banchi del pesce, nelle piramidi di pepe, nelle teste di agnello bollite ed esposte su piani di marmo insanguinato. Ma quella fiumana di ebrei, greci, armeni, albanesi, bulgari, persiani, italiani, tedeschi e francesi ha portato con sé secchi di denaro che vanno a finire in mattoni, cemento e luminose vetrate che vogliono imitare quella spigliatezza parigina, sposandosi con il languore levantino. Ma tutto è ancora solo brusio di un cantiere lontano, il mercato fa abbastanza rumore da non accorgersene ancora.
Un polacco con la divisa da sottufficiale inglese, portata con la sicurezza di un ammiraglio, cammina contro corrente, ogni tanto si ferma a far finta di  guardare le mercanzie esposte. In qualsiasi altro luogo la sua figura sarebbe apparsa per quello che sembra. Ma al mercato di Kadikoy, un bottone scucito, una macchia di rhum sul bavero e il berretto sprimacciato sono messaggi facili da leggere. Dietro di lui, zigzagando come una covata di pulcini appresso alla chioccia, lo tengono d’occhio una ciurmaglia addobbata di stracci turchi e brandelli di marsine europee. Lui è la preda. Ha addosso il suo fallimento di una notte a backgammon con un armeno che ha bevuto solo tè verde, mentre lui, con la sua spocchia anglosassone è andato avanti a forza di bicchierini, fino a ritrovarsi senza una sola moneta. Ora è in cerca di qualche cosa, ma non sa bene che cosa e quindi prova a sbatterci contro. Stanco, con le suole ormai smussate dal porfido, trova dei tavolini e qualche sedia di ferro battuto. Ci si siede sperando che nessuno venga fuori a chiedergli cosa vuole bere. I pulcini gli fanno cerchio, ma ben nascosti tra la folla, aspettano. Dal caffè esce, invece del barista, un tipetto segaligno, con un paio di baffi inaugurati da poco. Sui venti anni, indossa un tabarro blu, dei pantaloni di fustagno con le toppe alle ginocchia, scarponi da minatore che scricchiolano sul selciato. In testa, un berretto della marina russa, cattura qualche ciocca di capelli neri e lucenti come ossidiana.
Il ragazzo si siede accanto al polacco, lo squadra, si fa subito un’idea della situazione e incrocia subito con lo sguardo i pulcini. Parte una lotta muta, fatta di occhiate, brevi, fulminanti, e il giovane ne è il vincitore, perché la ciurmaglia si dissolve trascinata dalla folla.
“Sir, abbiamo passato una bella nottata!”
Il polacco alza lo sguardo e fissa il giovane che gli ha parlato in un inglese del South Yorkshire sporco di “s” egee , ma senza espressione. 
“Se hai bisogno di denaro, stai parlando con la persona sbagliata”
“Sir, per chi mi prendi?”
Il giovane chiama qualcuno da dentro e gli portano due bicchierini di rhum e un piatto di dolci alle rose. Il polacco non si muove mentre il giovane gli porge il suo in attesa di un brindisi.
“Non dovresti essere arrabbiato con tutti Sir, io non so cosa ti hanno fatto, ma io non c’entro. Bevi avanti. Non voglio nulla da te. Voglio solo brindare con qualcuno, che domani parto, me ne vado, verso l’America. Sai, io con il mare non è che ci vada tanto d’accordo… anzi, mi fa proprio paura. Però mi dicono che in America anche le vacche cagano dollari… scusa l’espressione”  e gli da’ un buffetto sulla spalla. Il polacco sorride e guarda il bicchiere pieno. Allora il giovane, incoraggiato da quel sorriso, continua.
“Insomma, ho visto un marinaio vero, che il mare lo acchiappa sotto le ascelle e mi dico, Alexis, offri un bicchiere a quest’uomo, che ti porta fortuna di sicuro!” E questa volta gli rifila una sonora pacca sulla spalla.
Il polacco, lo guarda severo, quasi adirato, il giovane si pente di essersi preso tanta confidenza e rimane fermo con il bicchiere a mezz’aria. Ma tra gli occhi celesti del mare del nord e quelli blu dell’Egeo si apre un passaggio largo come quello del Bosforo e ci entra un sorriso. Il polacco afferra il bicchiere e lo fa brillare con il suo compagno.
“Prosit!”
“Jamas!”
E i due attaccano a parlare con arretrati ventennali.
Il sole cala, ed entra nei vicoli del mercato, le pozzanghere di sudiciume brillano d’oro. Kadikoy cambia scene e attori.
Il polacco cerca l’orologio da taschino, ma si è ricordato che l’ha perso al gioco, allora chiede al giovane che ora è, ma neanche Alexis ha un orologio.
“Non mi piacciono”
Ferma un francese con una cassa piena di stoffe sulla schiena e gli chiede che ora è. Posa la cassa tira fuori l’orologio dal taschino che il polacco è convinto di riconoscere ma lascia perdere, sarebbe troppo lungo da spiegare. Si è fatto tardi per qualche cosa che non sa bene neanche lui. Alexis non ha voglia di andarsene, tra poche ore partirà il suo cargo e tutta quella dolcezza si dissolverà. Magari dandosi il cambio con il mal di mare.
“Sir, sono stato bene. Parlare con te mi ha messo coraggio, ora se devo galleggiare lo faccio con più decenza, grazie alle tue parole”.
Il polacco tira fuori dalla tasca interna della giacca una scatolina di legno decorata con bordi d’oro. La mette sul tavolo di marmo e fa cenno ad Alexis di prenderla.
“Cos’è?”
“Guarda da te. E’ tua”.
Il ragazzo la prende con delicatezza e fa scattare il piccolo uncino che la tiene chiusa. Dentro c’è una bussola con la sua lancetta che ondeggia.
“Mi è rimasto solo questo, ma volevo regalarti qualche cosa. In mare ti servirà. Sai come funziona? Segna sempre il nord”
“Perché?” Il polacco rimane stupito da quella domanda.
“Perché la lancetta è attratta dal campo magnetico…” ma si ferma, in un altro momento, in un altro luogo, quel tipo di risposta sarebbe stata logica, ma sentiva che gli occhi blu di quel ragazzo non potevano accontentarsi di una risposta del genere.
“Non lo so perché, ma tienila per ricordo” si alza, gli porge le mano, “Buon viaggio ragazzo, buona fortuna” beve l’ultimo sorso dell’ultimo rhum “Come ti chiami ragazzo?”
Alexis si alza anche lui, si toglie il cappello, si passa la mano sul cappotto e afferra vigorosamente quella del polacco “Alexis Zorba, sir”
“E’ stato un piacere Alexis, io mi chiamo Józef Teodor Nałęcz Konrad Korzeniowski
“Ma non sei inglese?”
“Non completamente!”
L’inglese polacco se ne va e Zorba rimane seduto a guardarlo scomparire. Poi osserva la bussola. La lancetta oscilla e si ferma a nord. La fissa, la agita un po’, come per sentirne gli invisibili ingranaggi all’interno. La riposa sul tavolo e la lancetta ritorna a nord.
“Io non ci casco”
Se la infila in tasca e se ne va. 


 

sabato 26 gennaio 2013

SUGLI OROLOGI MECCANICI E LE BUSSOLE 1




Zorba porta raramente un orologio, al massimo ne tira fuori uno che se lo tiene nel taschino del panciotto, ma dato che non mette quasi mai il panciotto, direi che non è uno degli strumenti che più ama. E ovviamente non potrebbe essere che così, dato che per lui il tempo non esiste, il tempo è una gabbia, una costrizione. Figurarsi se si fa incatenare da un tic-tac legato al polso. Ne avrebbe da dire sulle similitudini con cappi e guinzagli.

Era fermo sulla banchina di Salonicco ad aspettare non sapeva bene che cosa. Aveva le tasche vuote ma un orologio da gran signore. Passa uno zingaro e gli chiede cosa aveva da ridere.
Zorba, senza alzare lo sguardo, gli dice che non lo sa.
“Allora ti sei fumato le cervella la scorsa notte” fa lo Zingaro.
“Può darsi, sicuro è che ho perso tutto per liberare un uomo”.
“Liberare?”
“Sì, con le carte. Ho dovuto giocare a ramino tutta la notte per vincerlo alle carte il mio avversario. Un tipo di Stoccolma. Un armadio biondo, con i capelli tutti impomatati che parevano la peluria di un pulcino appena sgusciato. Non voleva saperne, tutta la notte a lottare, gli ho tolto tutti i quattrini, e ne aveva sai amico, una bisaccia piena, ma se ne liberava tranquillo e sereno. Allora ho capito. Appena ha cominciato a venire chiaro dalla finestra quello principia a guardare l’orologio. Aveva fretta, sembrava assatanato. Come? Mi dico, prima facevi tanto il colosso mentre ti spillavo tutti quei denari, ed ora ti rammollisci per il sole che sta per spuntare? Doveva andare via, ripeteva continuamente che aveva un appuntamento. Ho fretta, ho fretta, guardando l’orologio, gli tremava il labbro mentre si tormentava sulla sedia. Allora sai cosa gli dico Zingaro?”
Lo Zingaro, che nel frattempo si era seduto accanto a lui, rollandosi una sigaretta lunga e sottile come un pennino da scrivano, sfumacchiava contento ascoltando Zorba.
“Cosa gli dici greco?”
“Gli dico, ragazzo, se devi andare via fai pure, ma non è da uomini levarsi di torno così nel bel mezzo di una partita alle carte. Non ti dico che sei un vigliacco, non ti conosco, ma se un giorno mi parleranno di te e ti chiameranno così, vigliacco, caro ragazzo, stai sicuro che non ti difendo. Quello all’inizio si alza nervoso, io penso che se questo mi tira un pugno, la buonanima di mia mamma mi chiederà la carta d’identità quando arriverò al creatore, tanto mi avrà stropicciato lo svedese. Invece si fruga nelle tasche dei calzoni e tira fuori un tappo di sughero, una matassina di canapa e un bottone di madreperla. C’ho solo più questo da giocarmi. No ragazzo, tira su la manica sinistra della camicia, che quel gingillo forse non ti serve. No! Lo guardo come si guarda il pollo prima di tirargli il collo, hai presente come si fa zingaro? Li mangiate voi i polli no? Lo fissi e cerchi di non fargli capire che lo stai mandando all’altro mondo, sennò quello fa un chiasso di penne e piume da farti passare la voglia di mangiartelo arrosto”.
Lo zingaro, annuisce, e gli offre una sigaretta più corta e spessa, che aveva preparato nel frattempo.
Zorba l’accetta, se l’accende e riprende.
“Dunque, lo svedese si sfila l’orologio, lo mette sul tavolo, si risiede e grida spela! Io la capisco la sua lingua di uccellacci di mare e aringhe. Giochiamo allora ragazzo! Una mano sola, e l’orologio eccolo qua!” e se lo rimira al polso.
“Quello se ne va via così leggero, che non pensava più all’appuntamento che lo tormentava. Certo all’inizio era un po’ triste, ma lo vedevo allontanarsi a poco a poco, senza fretta, libero da quest’orologio che lo incatenava con il suo tic-tac infernale. Ora può fare quello che vuole. Io l’ho liberato” e aspira una bella boccata di fumo.
Lo zingaro sorride e gli dice “Magari aveva un appuntamento importante?”
“Cos’è un appuntamento importante, zingaro? Niente ti può far diventare uno schiavo del tempo, non esistono appuntamenti importanti!”
“Un lavoro?”
“Bah!”
“Un funerale?”
“Tanto il morto non ti sgrida se arrivi in ritardo”.
“Una donna!”
“Se era una donna dici? Non credo che si sarebbe messo a giocare a carte… Fammi un’altra delle tue sigarette zingaro, che me la conservo”.
Zorba, mentre lo zingaro si mette a preparargli una sigaretta, rimira l’orologio e ricomincia.
“No dico, ma ti rendi conto? Gli devi dare la carica tutte le mattine!”
“Meglio no?” fa lo zingaro.
“Come meglio?”
“Così, se un giorno ti stufi, puoi smettere di dargli la carica così lui si ferma, e sei di nuovo libero anche tu…”
Zorba lo guarda perplesso, poi fa un bell’anello di fumo e la bocca gli si stende in un sorriso.
“Hai ragione! Mi piacciono questi orologi!” E gli rifila una sonora pacca sulla spalla.
“sai che ti dico zingaro? Alla fine però, che io gli dia la carica o meno, questo cercherà sempre di fregarmi. Te lo regalo, a me non serve”.

giovedì 24 gennaio 2013

Dal blog Personal velocity http://micaelaveronesi.blogspot.it/

Zorba e le donne, le donne e Zorba
Una scena del film Zorba il greco di Michael Cacoyannis recitato e prodotto da Anthony Quinn
Da bambina Zorba era per me il sirtaki. Lo ballavo con mia mamma che me ne insegnava i passi e mi divertivo un mondo con quella musica così allegra e coinvolgente al punto che avevo anche imparato a usare il giradischi pur di rimettere il disco da sola. Forse avevo visto anche il film, chissà, non ricordo ma può darsi che la Rai lo avesse programmato in una sera d’estate dei primi anni Settanta.
Non avevo più pensato a Zorba, fino a qualche mese fa, quando Fabio Scibetta mi ha chiesto di leggere il suo nuovo testo teatrale, in cui lui, Zorba, è appunto il protagonista.
Come in tutti i testi di Fabio, in La luna di Zolfo c’è il giusto mix fra poesia, ironia e visionarietà. Uno Zorba insolito, il suo, che viaggia fino in Sicilia, fa affari sfortunati addirittura con i Malavoglia (!!!) e si imbatte con Ciaula e Rosso Malpelo, tutti ovviamente a lavorare in una miniera. Scibetta lavora così: d’impulso. Le idee gli vengono e hanno già forma. Per questo è un artista ma è anche un uomo generoso. Non vive abbarbicato in un pianeta solo suo, sta qui, su questa Terra e lavora per renderla migliore.
Il problema – se di problema si può parlare – è nato quando ho incontrato lo Zorba letterario, quello originale, di Nikos Kazantzakis. 
                                                  
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Una veduta di Creta





Il vero Yiorgis Zorbas al quale è ispirato lo Zorba di Kazantzakis
Kazantzakis a Creta